martedì 27 settembre 2022

Sguardi iraniani - Giuliana Cacciapuoti per Enterprisingirls

Abbiamo chiesto a Giuliana Cacciapuoti, arabista che da oltre 40 anni si occupa di cultura e società arabo-islamica in Europa e Nord America, di esaminare quanto sta avvenendo in Iran in questi giorni dopo la morte di due donne.


Sguardi iraniani

Era il 1979 e nessuna delle giovani donne, che con determinazione e coraggio, protestano per le morti di Masha Amini e Hadith Najafi, era ancora nate.

Al tempo le loro madri erano ragazze che avrebbero affrontato il cambio di regime: una rivoluzione islamica che in brevissimo tempo le avrebbe condotte a vivere nella Repubblica sciita con la guida religiosa degli ayatollah.
Uno dei grandi pilastri del cambiamento e discontinuità dal sanguinoso regime dei Pahlevi fu il velo iranico, lo CHADOR.  Le guide religiose e politiche del paese lo avrebbero imposto alle donne con la stessa violenza con cui lo aveva abolito lo scià. Fu allora, negli anni Ottanta, che il nome chador indossato obbligatoriamente fuori casa dalle iraniane divenne per la stampa italiana sinonimo di velo musulmano. In origine una foggia usata nelle campagne, anche vivace e colorata, poi un mantello nero, spesso accompagnato da una sciarpa a coprire bene i capelli, la foggia e il colore migliori per Khomeini. Una vera ossessione per la polizia religiosa della nascente Repubblica islamica controllare che nemmeno un ricciolo sfuggisse dal copricapo. La ragione del divieto assoluto a mostrare i capelli sta nel fatto che essi sono il simbolo della bellezza femminile, uno dei principali attributi della bellezza fisica, per qualità, lunghezza, lucentezza; producono terrore peccaminoso i neri lunghi capelli, via per la perdizione e la Gehenna, l’inferno musulmano. Il velo usato in Iran, a differenza dell’hijab, termine arabo che indica il foulard diffuso in tutto il mondo musulmano, ha come carattere distintivo quello di coprire tutto il corpo, non solo la testa, per nascondere fattezze e capelli, lasciando visibile solo il volto. Oriana Fallaci intervistando Khomeini, assai prima di Amanpour, clamorosamente si liberò dell’ingombrante chador che aveva indossato per intervistare l’imam rientrato in trionfo dall’esilio parigino per guidare la rivoluzione islamica, ma ho ricordo vivo delle docenti dell’Università Orientale che rifiutarono, nonostante la pressione dei pasdaran, di togliere dal dito le loro fedi matrimoniali, come chissà quale offesa potessero arrecare;  segni di una manifestazione di dissenso necessari e che in anni più vicini a noi, per opportunità politica, produssero censure preventive a statue e immagini della classicità e dell’arte antica.
Le militanti rivoluzionarie indossarono subito lo chador, perché simbolico e palese manifestazione del rifiuto del modello occidentale imposto dallo scià. In Iran però il velo  - e il cambiamento del suo significato sociale nel mutato contesto - legano strettamente il “nuovo” velo e il significato simbolico erotico della capigliatura femminile.

La relazione simbolica e simbiotica tra ciò che copre, il velo, e ciò che è coperto, i capelli, sono centrali nel comprendere anche la violenza delle vicende attuali.

Il regime politico iraniano diede al velo significato e valenza di rappresentazione simbolica delle ideologie fondative della nascente repubblica islamica sciita. Attraverso l’imposizione e/o la reimposizione del velo, lo chador nero, la guida suprema ha prodotto un immagine nuova e idealizzata delle donne iraniane e un’idea di Iran come paese moderno che sta cambiando rispetto al passato e rimane islamico al tempo stesso.
Questa immagine condensata di prototipo e sintetico ideale femminile ha prodotto una spinta all’empowerment delle “rivoluzionarie”, che scesero in piazza e entrarono nei ruoli della politica e in Parlamento, marginalizzando tutte le altre che non vi aderivano e ledendole nei loro diritti. Se velarsi di nuovo contro lo scià con rapido slancio da un lato permetteva la politicizzazione delle donne iraniane dall’altro non eliminava la presenza di tutte le donne che hanno continuato e continuano a contestare il significato patriarcale del velo protestando contro la sua imposizione.

Ashraf Zahedi sul Journal of Middle East Women's Studies nel 2007 esplicitava molto chiaramente il simbolico del velo nel contesto ideologico del regime iraniano. Soffocati prestissimo i tentativi di una democrazia partitica e pluralista, che la società iraniana con la sua classe medio alta istruita aperta al mondo esprimeva, molta parte di quelle persone  di cultura raffinata, cosmopolita, donne e uomini di profonda serietà e dignità intellettuale dal sogno della libertà precipitarono nell’incubo della guerra con l’Iraq, della polizia morale e dei guardiani della Rivoluzione, delle esecuzioni capitali, degli internamenti nelle carceri e del controllo capillare dell’intransigenza pasdaran.
In questo mondo cupo e oppressivo sono crescite le ragazze che oggi sono scese a manifestare nelle strade: non hanno mai visto un mondo senza chador, hanno frequentato e studiato nelle università con grande rigore e brillantezza, tanto da superare per numero i colleghi uomini e indurre le autorità a pensare di porre un freno a questa avanzata culturale femminile, sono oppresse da regole e norme che segnano confini invalicabili nelle loro vite.
I diritti non sono mai per sempre e sempre più difficile è riconquistare quanto irrimediabilmente cancellato soprattutto se isolamento internazionale e crisi economica galoppante accentuata dalla pandemia inducono l’establishment a stringere ancora di più le maglie del dissenso e trovare nella violenza e nel terrore la chiave per reprimere la rabbia e la protesta delle giovani generazioni.

Emblematico quanto il corpo delle donne sia destabilizzante nei regimi apertamente dittatoriali.
La repressione e l’imposizione della polizia morale sciita degli ayatollah, la difesa dello status quo con la paura delle rieducazioni attraverso le punizioni corporali fino alla possibile morte, magari per infarto, è una minaccia presente per la popolazione che non ha mai rinunciato davvero a dissentire e resistere.
Moltissime le personalità oggi esuli come Marjane  Satrapi, fumettista, illustratrice e artista, Shirin Ebadi avvocata Premio Nobel per la pace e strenua difenditrice dei Diritti umani in Iran, Azar Nafisi docente all’università di Teheran che ha resistito con le sue studentesse alla cancellazione della libertà di pensiero tenendo corsi in clandestinità e Shirin Neshat artista che  nelle sue opere ha eletto  il corpo della donna a soggetto unico.
Donne che oggi ci interrogano con i loro volti e sguardi intensi e muti. Senza parole, senza voce e senza ascolto da oltre quarant’anni.

La Repubblica islamica terminerà per i colpi di forbice del lutto delle iraniane?


Fotografie di Giuliana Cacciapuoti alla mostra di Elizabeth Guyon Spennato Sguardi persiani, l’anima di una generazione (2012-2017)